Alfredino Rampi, Vermicino e la nascita della Protezione Civile

FOTO STORICA DI ALFREDINO RAMPI IN SPIAGGIA

il 10 Giugno 1981 si verificò un incidente che piantò il seme per la nascita di quella che oggi è la Protezione Civile. Questa è la storia di Alfredino Rampi, Vermicino e Protezione Civile

Questa è la storia di Alfredino Rampi, della tragedia di Vermicino e della Protezione Civile. La prima diretta no stop della RAI, che seguì in per quasi 3 giorni la tragedia di Alfredo.

10 Giugno 1982, ore 19.30

Era il 10 Giugno 1981, e il sig. Ferdinando Rampi in compagnia di due amici e di suo figlio, il piccolo Alfredino di 6 anni, stavano facendo una passeggiata nelle campagne circostanti alla loro abitazione in via di Vermicino, in provincia di Roma, e intorno alle 19 e 30, Alfredino con l’autorizzazione del padre, proseguì da solo il percorso (pochi metri) per ritornare a casa attraversando i prati.

Quando intorno alle 20 il sig. Ferdinando arrivò a casa scoprì che suo figlio non vi era mai arrivato. Dopo una breve ricerca nei paraggi della casa, furono allertate le forze dell’ordine, alle 21.30 circa.

Giunsero sul posto Polizia Municipale, Vigili del Fuoco, Polizia e unità cinofile insieme agli abitanti della zona che si unirono alle ricerche.
La nonna di Alfredino riferì dell’esistenza di un pozzo dove si stava edificando un’abitazione. Giunti sul posto ci si accorse che il pozzo era coperto e sigillato con delle assi di legno.

Ore 24. Un poliziotto, che sentì dell’esistenza del pozzo decise comunque di ispezionarlo nonostante fosse a conoscenza che era stato rinvenuto coperto.
Fece rimuovere la lamiera e con la testa infilata nell’imboccatura sentì provenire dal fondo dello scavo un lamento e una flebile voce.
Era Alfredo.

E’ opportuno ricordare che ai tempi della tragedia di Vermicino, la Protezione civile ancora non esisteva e non vi era un sistema collaudato e condiviso per l’organizzazione dei soccorsi sanitari e tecnici

Come era finito lì dentro Alfredo?

In seguitò si venne a conoscenza che il pozzo che era stato trovato sigillato con lamiera e assi di legno, fino a poco prima era aperto, e il proprietario del terreno lo aveva chiuso intorno alle ore 21, senza rendersi conto che all’interno fosse precipitato un bambino.

Le squadre di soccorso

Sono passate 6 ore.
Tutti i soccorritori si riunirono attorno al pozzo. L’imboccatura era larga 28 centimetri, con una profondità di 80 metri. Il canale non scendeva in maniera perfettamente perpendicolare ma vi erano rientranze e curve. Alfredo era rimasto incastrato in prossimità di una di queste sporgenze.
Alfredo si trovava a 36 metri di profondità.

Il primo tentativo di soccorso fu fatto calando una tavoletta legata a delle funi. Lo scopo era calarla affinché Alfredino potesse attaccarsi ad essa ed essere riportato in superficie.

Il primo tragico errore

Il tentativo si rivelò un tragico errore.
La tavoletta infatti restò incastrata ad un’altezza di 24 metri prima di raggiungere il bambino. La corda con cui era legata si ruppe e fu più possibile rimuoverla. Il pozzo risultava quindi quasi totalmente ostruito. Nel frattempo fu calato una specie di microfono che permetteva di sentire la voce del bambino, che appariva lucido e collaborante.
Attorno al pozzo i genitori di Alfredo assistevano impietriti a questa scena.

Calare qualcuno dentro quel cunicolo era impossibile e si decise di scavare con una sonda perforatrice un secondo pozzo, più largo e lineare, da mettere poi in collegamento con un cunicolo al pozzo di Alfredo.
Viene diffuso un appello sulle reti locali in cui si richiede la disponibilità urgente di un mezzo per tirare fuori un bambino incastrato in un posso. L’appello viene sentito da un giornalista che si attiva per trovare il mezzo.

Nell’attesa della perforatrice, intorno alle 4 del mattino giunsero sul posto degli speleologi del Soccorso Alpino. Due di loro, di statura minuta, tentarono uno dopo l’altro di calarsi nel pozzo, ma entrambi riuscirono a malapena a raggiungere la tavoletta senza riuscire a sbloccarla. Nel frattempo si iniziò anche a fornire di ossigeno il pozzo per evitare l’asfissia del bambino. Cominciano anche i primi dissidi tra i vari soccorritori giunti sul posto.

Le incomprensioni tra i soccorritori

Il comandante dei Vigili del Fuoco ordinò di sospendere i tentativi di recupero attraverso il pozzo e di dedicarsi alla costruzione del secondo pozzo. Una geologa calcolò che considerando gli strati di roccia presenti, lo scavo del nuovo pozzo avrebbe richiesto molto tempo e che forse sarebbe stato il caso di continuare con i tentativi di recupero da parte degli speleologi.
A quanto risulterà, il comandante dei VV.FF Elveno Pastorelli, vietò che si facessero altri tentativi con gli speleologi.

Intorno alle ore 8.30 del mattino iniziarono gli scavi con la perforatrice che scavò 2 metri in due ore, fino a quando venne raggiunto uno strato molto più duro poiché roccioso, e venne richiesta una seconda sonda più potente. La notizia inizia a diffondersi a livello nazionale, e viene diffusa anche la voce di Alfredino, tramite il microfono calato nel pozzo per restare in contatto con lui.

Alle ore 13 la notizia di Alfredino e di Vermicino tramite i tg entra nelle case di tutti gli italiani.

Nel frattempo, intorno alle ore 14 si era creata una folla di oltre 10.000 persone. Fattore che pare fu responsabile della difficoltà nei soccorsi. Tra di loro c’era anche gente che vendeva acqua e cibo. Il caos era tale che anche i mezzi di soccorso avevano difficolta a spostarsi.
Il comandante dei VV.FF affermò che in poche ore la sonda avrebbe raggiunto la profondità richiesta per recuperare il bambino.

Intorno alle ore 16 la prima sonda dopo aver scavato un pozzo di 20 metri di profondità e largo 50 cm, fu sostituita dalla nuova più potente.
Lì i tecnici si resero conto che ci sarebbero volute circa 8-12 ore di lavoro prima di raggiungere la profondità richiesta.

Alle ore 18 la profondità raggiunta era di 21 metri, e nel frattempo a distanza il bambino veniva “visitato”. Sarebbe dovuto essere operato a settembre per una cardiopatia congenita. Gli venne fornita una flebo di acqua e zucchero per rifocillare il bambino, impaurito oltre per l’accaduto anche per i rumori provocati dalla sonda. Sonda che fu sostituita da una terza, più performante delle prime due.

Le trasmissioni radio televisive erano state interrotte dalle 10.30 e ripresero alle ore 20. Tale interruzione era dovuta alla necessità di non interferire con le comunicazioni radio dei soccorritori.
Alle 21.30 le perforazioni furono messe in pausa per problemi tecnici, e si fece un tentativo di recupero calando nel primo posso il sig. Isidoro Mirabella, un minuto manovale siciliano, che scese in profondità e riuscì soltanto a parlare con Alfredo senza però raggiungerlo veramente.

Alle 7.30 del giorno dopo, la sonda aveva raggiunto i 25 metri di profondità, e Alfredo (fermo a 36 metri di profondità) tramite il microfono comunicava di essere stanco e piangeva.

Alle 10.00 si era arrivati a 30 metri di profondità, e delle nuove stime fecero supporre che il bambino si trovasse non a 36 metri ma a 32 metri. Con una Scavatrice a pressione si iniziò a scavare il tunnel di comunicazione tra i due pozzi. Ma la macchina si bloccò subito dopo l’accensione. Le condizioni di Alfredo stavano peggiorando, e dei vigili del fuoco cominciarono a scavare a mani nude il tunnel di comunicazione tra i due pozzi.

Alle 16.30 Arrivò sul posto il presidente della repubblica Sandro Pertini.
Alle 19 i due pozzi erano finalmente in comunicazione, ma di Alfredo non c’era traccia.

La situazione precipita

A causa delle vibrazioni dovute alla perforazione il bambino era probabilmente scivolato più giù.
Si calò un cima per capire dove fosse il bambino: Alfredo era davvero scivolato più giù, e ora si trovava a 60 metri di profondità.

Si riprovò quindi da dove si era cominciato, e dopo vari tentativi si calò nel pozzo originale Angelo Licheri, magro e molto basso, e nella notte tra il 12 e il 13 Giugno, riuscì a raggiungere Alfredo, gli allacciò l’imbracatura che per 3 volte si si aprì. Tentò di trascinarlo a se afferrandolo per le braccia, ma il bambino scivolò alla sua presa. La manovra provocò anche la rottura del polso di Alfredo.
Angelo Licheri fu quindi riportato stremato in superficie.
Era rimasto a testa in giù per 45 minuti.
La soglia massima di sicurezza in quella posizione è di 25 minuti.

Dopo di lui ci furono altri tentativi, da parte di speleologi, nani, e un artista contorsionista appartenente ad un circo.
Alle 5 del mattino si calò uno speleologo. Raggiunse Alfredo e lo assicurò a sè creando una specie di cappio con delle fettucce, che però scivolarono via al primo tentativo di trazione. Tentò una seconda volta provando con delle manette, ma senza successo. Tornò in superficie riferendo che probabilmente Alfredo ormai era deceduto.

Verso le 9 del 13 Giugno sempre tramite il microfono, la mamma di Alfredo, Franca, chiamò più volte il figlio, senza ottenere risposta. Fu calato un fonendoscopio per rilevare il battito cardiaco, e successivamente tramite una sonda ottica fu possibile vedere Alfredo. Non respirava e non si muoveva. Ne fu dichiarata la morte presunta.

Il pozzo fu riempito di gas azoto liquido per conservare il corpo per l’autopsia.
Il corpo di Alfredino fu recuperato l’11 Luglio da un gruppo di minatori.

Epilogo: Vermicino e Protezione Civile

Da quanto avete letto, e da vari ulteriori informazioni emerse nei giorni successivi alla tragedia fu evidente la poca organizzazione nella gestione e coordinazione dei soccorsi.

Chiunque poteva avvicinarsi al pozzo e guardare all’interno ad esempio. A seguito di un incontro tra la mamma di Alfredino e il presidente Sandro Pertini, la donna raccontò tutti gli errori  che erano stati fatti durante i tentativi di salvare suo figlio, e  si fece ancora più forte l’importanza di un organo che gestisse e coordinasse eventi di questo tipo.

Due mesi dopo Pertini la chiamò al al telefono, dicendole: “dopo quello che è successo, e dopo la conversazione con lei, ho deciso di istituire un ministero della Protezione Civile”.  

A seguito della tragedia di Vermicino, nacque la Protezione Civile.

Di seguito trovate i documentario de “La storia siamo noi” dove si racconta la drammaticità di questo evento.

Terremoto Arquata, le vite normali dei sopravvissuti al terremoto

E’ due giorni che provo a raccontare quello che è successo nelle 70 ore in cui siamo stati insieme ai colleghi farmacisti pugliesi di protezione civile nei luoghi del terremoto, senza però riuscirci.
Scrivevo 2 pagine, rileggevo e cancellavo.
Lo avrò fatto almeno tre volte.

Mi rendevo conto che stavo scrivendo quello che avreste potuto benissimo leggere su un qualsiasi giornale, scritto sicuramente meglio rispetto a come avrei potuto fare io.
Mentre scrivevo, non so per quale motivo, cercavo di mantenere un distacco e narrare in maniera impersonale quello che ho vissuto, cosa abbiamo fatto, quello che abbiamo visto.

La verità è che la cronaca e la narrazione non spetta a me, ma ai giornalisti.
Quindi ho ricominciato una quarta volta, provando stavolta a scrivere “di pancia”.

Siamo arrivati nella tendopoli di Arquata e sembrava un formicaio. La quantità di gente che faceva cose era impressionante. Tutti sapevano cosa fare, dove andare e come muoversi, nonostante fossero passate solo 20 ore dal disastro. La frenesia era tale che anche noi appena arrivati, senza sapere dove sistemarci e cosa fare, siamo stati trascinati da quest’onda e ci siamo ritrovati a lavorare, partendo da noi stessi.

Io stesso sono partito per Arquata con la paura di non sapere come rendermi utile. Sono un farmacista, ma li le farmacie sono quasi tutte andate distrutte, e farmaci ancora non ce ne sono.
Ma il fatto di essere presenti in una situazione del genere, ti spinge a renderti utile, e ad “inventarti” come aiutare chi è li, con gli strumenti che hai, se ne hai.

E così ho cominciato a parlare con Egizia e Peppino, due anziani signori che erano seduti nel cono d’ombra davanti a quella che sarebbe poi diventata diventata la farmacia campale, e più il sole saliva e più l’ombra diminuiva.

Peppino dal 1993 gira con il bombolino dell’ossigeno, e la sua bombola sarebbe esaurita di lì a poche ore, e la cosa giustamente lo metteva parecchio in ansia.
Ci siamo messi in contatto con l’azienda che consegna a domicilio l’ossigeno.
Gli diciamo che la casa di Peppino non c’è più e che domani una bombola deve essere recapita alla Farmacia campale di Borgo Arquata. Ci danno conferma e appena do questa notizia Peppino ed Egizia di rasserenano.

E li capisco cosa posso fare ed il motivo per cui siamo lì.
Immaginate un paesino di montagna di 1600 abitanti, la maggior parte anziana. Ho pensato ai miei nonni, e alla loro vita basata sull’attesa di un qualcosa. L’attesa dell’ inizio del telegiornale, l’attesa della domenica con il pranzo in famiglia, e l’attesa del momento in cui assumeranno i loro farmaci e all’ansia che li prende quando stanno per finire, anche se il blister contiene ancora 5-6 compresse.
Prendere il farmaco per un anziano è un normale momento della vita quotidiana, come lo è per me andare a bere una birra con gli amici.
Quando ti trovi un una tenda, che non sai per quanto tempo sarà casa tua, visto che la tua vera casa è crollata per metà, ti aggrappi agli sprazzi di normalità che ti puoi concedere. E tutti noi eravamo li per quello, aiutare a creare quel senso di normalità.

Mi ha ha colpito l’umiltà con cui hanno accettato questa realtà, consci del fatto che loro erano lì in una tenda blu, mentre un parente o un vicino era finito in un sacco nero. L’ho capito quando per ogni piccola sciocchezza mi dicevano grazie, come se stessi facendo qualcosa di immenso per loro e quel grazie mi metteva quasi in imbarazzo. Un grazie che quando ho lavorato in farmacia a Bari non ti da nessuno, perchè quello è il tuo lavoro e viene dato tutto per scontato.

Ho parlato con la signora Franca. Mi sono avvicinato, le ho chiesto più volte se aveva bisogno di qualcosa, ma mi rispondeva sempre di no, quasi intimidita. Mi alzo dalla panchina per andare via e in quel momento mi richiama:
-“Dottore, mi scusi, so che non è facile trovarlo, ma mi piacerebbe avere un pettine”.
Un pettine.
La faccia che ha fatto quando dopo un po’ di ricerche tra cartoni contenenti la qualunque, le ho portato uno splendido pettine nero in plastica, io non ve la so descrivere, ma me la ricorderò per tutta la vita.

Ho sentito le scosse. Ne ho sentite solo 7 durante la notte, mentre ero sdraiato e provavo a dormire. Perchè se sei in piedi non le avverti.
E quando le senti non sai assolutamente cosa fare. Noi eravamo in un posto sicuro. Ma se sei a casa con i tuoi famigliari di notte, rischi di rimanere paralizzato e non essere lucido per scappare.

Ho visto una signora che ha perso la casa e la sorella, consolare un volontario che ha visto troppo tra le macerie e ha ceduto ed è scoppiato in lacrime. La sorella della signora l’hanno trovata nel letto. “Dottore se stava nel letto, stava dormendo. L’hanno trovata li. Non si è accorta di niente vero? Non ha sofferto vero? Io sono contenta perchè così mentre dormiva se n’è andata. L’abbiamo fatta cremare perchè lei voleva così”.
È scoppiata a piangere  e mi ha abbracciato “Lei è un bravo dottore, e siete tutti bravi perchè ci state aiutando”.

Ho parlato con il signor Dario, che camminava arrancando appoggiandosi su due bastoni, ed era li da solo, senza nessuno, e voleva passare a tutti i costi da casa perchè doveva annaffiare i pomodori, ed erano 2 giorni che non prendevano acqua ma solo polvere. E sono stato li a parlare per qualche minuto di pomodori, io che di pomodori non capisco nulla, e ho avuto la presunzione di pensare che per quei 4 minuti che mi ha raccontato dell’angolo di orto dove li teneva, di quanto era alta la piantina e del momento esatto di cui raccoglierli, lui era li nel suo orto ed era contento. E forse per la prima volta in vita mia, parlando di pomodori in un campo sportivo pieno di tende, sono stato grato della mia professione, anche solo per il fatto di avermi messo nella condizione di essere li a fare qualcosa di normale.

Ho parlato con Paolo, un vigile del fuoco che si è fatto 5 terremoti, uno dei quali nella sua Emilia Romagna. Gli occhi rossi per colpa della polvere che si sollevava spostando i detriti. La sera distrutto e stanco morto, la mattina carico di energie come se avesse dormito 12 ore.
E ho capito che un vigile del fuoco che scava sotto le macerie non lo fermi neanche se gli spari da un metro con un fucile a pompa.

Sono tornato a casa “pieno”. E ho capito che lo stato italiano può permettersi alcune lacune perchè dall’altro lato c’è la macchina del popolo. E non vuole essere un’affermazione autoreferenziale, ma rivolta sopratutto ai vigili del fuoco instancabili e a tutti quegli operatori che in una sola notte hanno montato tende, brandine e bagni chimici, portato la corrente elettrica dove regnava il buio e tanto altro.

Sono grato a queste persone per quello che mi hanno insegnato, per l’umanità che hanno mostrato e spero che tutti quelli che hanno perso una casa, un parente, un amico, possano nonostante le difficoltà, ritornare ad avere una vita normale.